Droga. La parola che descrive meglio tutto.
Non solo la dipendenza, c'è proprio un senso di rarità, di élite, di priorità.
E altera la percezione del tempo. I giorni sono mesi e le ore sono giorni.
Il tempo batte il suo ticchettìo con la mazza sull'incudine e, come fenomeno emergente di giochi d'intervalli, con il suo pendolo di inquietudine entra in risonanza, poi in battimento, poi in asincronìa col cuore che ho in petto.
Finché tempo e cuore trovano una coreografia di contrazioni: il primo rallenta e sfiora asintotico l'immobilità, mentre il cuore accelera.
Sembra di avere un'MG42 che raffica da sotto lo sterno e vedo la luce dei miei traccianti dare colore al finora monocromatico mondo esterno.
Non c'è un'overdose di questo. Il corpo si ridistende ogni volta. Come un gas occupa tutto lo spazio disponibile e non basta.
La pressione scala, escala, esorbita e vola nel continuo.
La memoria tattile frega sempre, il bruciore dei mille aghi che risveglia di notte, il senso di smarrimento e di rifugio.
Sentirsi nudi eppure cònsoni, accarezzare il vuoto e il preludio è iniziato.
Contrazioni. Cioè tirare insieme a sé, trascinarsi verso l'epicentrico occhio del ciclone.
Perché è sempre stata una questione di occhi, vero?
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